Come capire se l’impresa che si gestisce è in stato di crisi?
Si definisce in stato di crisi l’impresa che nei successivi dodici mesi non presenta entrate sufficienti a far fronte alle obbligazioni già contratte. Lo stato di crisi può essere anche soltanto momentaneo. In altre parole, non è affatto detto che l’impresa in stato di crisi sia destinata ad uscire dal mercato, ben potendo, con l’attuazione di opportuni interventi correttivi, risalire la china, riacquistando una condizione di salute.
Che fare quando ci si rende conto che l’impresa si trova in condizioni di crisi?
Per raggiungere l’obiettivo del risanamento dell’impresa è fondamentale attivarsi il prima possibile, non appena compaiono le avvisaglie dello stato di crisi.
Tuttavia, non è facile, specialmente nel caso in cui l’imprenditore sia coinvolto fino al collo nella gestione e si sia indebitato anche personalmente, avere la lucidità e la lungimiranza necessarie.
In tali condizioni, perciò, è più che mai opportuno rivolgersi a un professionista qualificato, capace di affrontare correttamente la situazione, depurandola, anzitutto, proprio dalla componente emotiva che, a questo punto, rischierebbe di giocare brutti scherzi all’imprenditore.
L’intervento del professionista nella gestione della crisi dell’impresa
Il professionista, una volta interpellato, per prima cosa raccoglie tutta la documentazione detenuta dall’imprenditore, corredandola delle ulteriori informazioni acquisite sia interrogando autonomamente i canali istituzionali, sia direttamente dallo stesso imprenditore.
Nel giro di poche settimane, almeno nella maggior parte dei casi, il professionista è già in grado di delineare un quadro chiaro della situazione.
Tra le sue prime attività, il professionista incaricato provvederà all’individuazione dei creditori e alla redazione del relativo elenco, con la specificazione dell’ammontare dei singoli crediti, delle relative scadenze e dell’annotazione ulteriore qualora si tratti di crediti privilegiati.
Nello svolgimento della sua analisi, il professionista distinguerà anche tra i debiti negoziabili e i debiti non negoziabili, cioè quei debiti per i quali non è possibile procedere transattivamente, come, ad esempio, i debiti erariali, per cui non resta, quindi, che chiedere una dilazione di pagamento.
Ma l’obiettivo principale del consulente è verificare se l’impresa in crisi abbia i numeri per operare un tentativo di risanamento o abbia, invece, già raggiunto una condizione di criticità talmente grave da non essere più recuperabile.
Nel primo caso, l’analisi procederà andando a verificare se i flussi di cassa siano, almeno astrattamente, idonei a coprire le scadenze e se tali entrate subiscano, perciò, una dispersione, nel corso della gestione, non direttamente finalizzata all’acquisto delle materie prime e dei prodotti direttamente imputabili all’attività.
In altri termini, se le entrate mensili sono capienti per far fronte alle spese direttamente destinate alla compravendita di prodotti in senso lato destinati al regolare svolgimento dell’attività di impresa, ben può darsi che esse siano mal impiegate in altre tipologie di spese, quali, ad esempio, canoni di locazione molto elevati, bollette relative alle utenze, macchinari acquistati quando sarebbe stato più conveniente prenderli a noleggio, ecc.
In tale situazione, difatti, il professionista ha buone prospettive di trovare soluzioni economicamente più vantaggiose da proporre all’imprenditore, che gli consentano di recuperare un adeguato equilibrio tra i flussi di cassa e le uscite correnti.
Si tratterà, allora, di negoziare singolarmente con i creditori, per ridurre il più possibile il debito e, in ogni caso, per pattuire pagamenti dilazionati, cui l’imprenditore sia in grado di prestar fede senza doversi ulteriormente indebitare.
È importante notare che anche soltanto la semplice provenienza della proposta al creditore dal professionista piuttosto che dal debitore, nella grande maggioranza dei casi facilita il suo accoglimento, perché ingenera una maggiore fiducia nel creditore, legata alla professionalità e alla terzietà del consulente rispetto all’imprenditore.
Ci possono essere, però, delle situazioni in cui i flussi di cassa in nessun caso possono essere sufficienti a coprire le spese, per cui si rende necessario, sempre nell’ottica del risanamento dell’impresa, ricorrere a finanza esterna.
Lo strumento del ricorso alla finanza esterna: i prestiti personali
La soluzione della riorganizzazione delle procedure di gestione aziendale e del sistema delle uscite è sicuramente meno gravosa per l’imprenditore, che, a fronte di nessun nuovo impegno di spesa, vedrà aumentare il guadagno, anche a parità di flussi di entrata.
Tuttavia, in alcune situazioni tale percorso non è materialmente praticabile, quindi, sempre qualora il professionista ritenga che ci sia un buon margine per arrivare a formulare ai creditori proposte appetibili, non resta che valutare di ricorrere a strumenti di finanza esterna.
In questi casi, oltretutto, non sempre le banche e gli altri intermediari finanziari, in ragione del basso rating dell’impresa, si dimostrano immediatamente disponibili a offrire all’imprenditore in crisi strumenti economicamente convenienti, perciò si può rendere necessario aggiungere garanzie personali o reali o ricorrere a fideiussioni.
In ogni modo, la contrazione di finanziamenti o di prestiti personali prevede sempre l’obbligo di restituzione del capitale, maggiorato degli interessi convenuti. Ciò può comportare, oltre agli attesi vantaggi, anche qualche svantaggio per l’imprenditore.
I pro e i contro del ricorso ai prestiti personali e ad altre analoghe forme di finanza esterna
Il professionista, nel proporre all’imprenditore il percorso verso il risanamento che ritiene più vantaggioso, o anche soltanto l’unico possibile, deve sempre tenere presente che ogni soluzione può essere gravosa per il debitore, e ciò, in particolar modo, quando la via del risanamento, piuttosto che da una riorganizzazione delle spese aziendali, debba passare dal ricorso a strumenti di finanza esterna, quali un finanziamento, anche sostenuto da garanzie reali o personali.
In questo secondo caso, difatti, lo si ricorda, sull’imprenditore viene pur sempre a gravare l’onere della restituzione del capitale, maggiorato degli interessi convenuti con l’ente erogatore.
Il consulente, perciò, deve agire con molta cautela, contattando singolarmente ogni creditore e formulando a ciascuno una proposta personalizzata. Soltanto se al termine di tutte le consultazioni con i creditori emergerà un quadro sufficientemente positivo, in cui almeno buona parte dei creditori abbia accettato le condizioni presentate dal professionista, solo allora può validamente procedere a dare attuazione al piano progettato.
Il rischio, altrimenti, sarebbe quello di far contrarre all’imprenditore un nuovo debito, pur a fronte dell’entrata immediata.
Perciò, se quella entrata immediata prodotta dal ricorso al finanziamento non è sufficiente a soddisfare le pretese dei creditori al punto da riportare la posizione dell’impresa almeno in equilibrio tra entrate ed uscite, lo sforzo non soltanto sarà stato vano, ma andrà ad accrescere in negativo il differenziale tra flussi di cassa attesi ed obbligazioni contratte, alle quali ultime si andrà inevitabilmente ad aggiungere la rata mensile.
Del resto, il panorama del settore della crisi è connotato da numerose situazioni in cui la situazione di crisi si produce addirittura proprio in conseguenza di un indiscriminato ricorso al prestito personale, non solo da parte dell’imprenditore, ma anche del consumatore, tanto da aver indotto il legislatore, poco più di una decina di anni fa, ad introdurre nel nostro ordinamento la c.d. legge “anti-suicidi”, regolante le procedure da sovraindebitamento, proprio a segnare la vastità e la gravità del fenomeno.